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Quello Che Ci È Piaciuto


Jolly28

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Sulla scia del 3ead "esistenziale" di Sognatore, mi è venuto in mente di aprire un angolino, dove mettere dei racconti o degli stralci di cose lette, che ci hanno particolarmente colpito.Quello di Sognatore mi ha ispirato questo "concetto"

(il font è volutamente ingrandito per facilitare l'eventuale lettura)

Essere felici nei ritagli di tempo

Ho in mente la faccia spigolosa di Michael Rennie in “Ultimatum alla Terra”, mentre arringa la folla circa i rischi della violenza. Dietro di lui il disco volante è così finto e ingenuo che quasi mi fa piangere. Sapete, una di quelle cose che ti fanno venire tristezza, una sensazione di malinconia, di struggimento, la consapevolezza che tutto prima o poi finisce.

Le gocce di pioggia rigano il finestrino, in testa mi ripeto le parole con cui inizia il discorso:

I am leaving soon, and you will forgive me if I speak bluntly.

"Partirò presto, quindi mi perdonerete se vado direttamente al punto."

Continua a piovere su quest’autostrada. Mio fratello in silenzio fissa qualcosa dritto davanti a sé e guida. Io, nel riflesso del finestrino, con queste grosse orecchie e gli zigomi all’insù, vorrei essere come Michael Rennie e leavin soon con quel che segue.

Continuiamo a viaggiare verso la nostra meta (Autostrada Torino - Savona, area di sosta Priero Ovest, come recita il post-it appiccicato al cruscotto) senza dire una parola, con la musica bassa, la pioggia sui vetri e i tergicristalli a piena velocità.

Mia zia è partita per una di quelle gite organizzate, quelle in cui riempiono pullman con la scusa di un’allegra scampagnata al mare e poi propinano pentole o piatti o che so io. Lo scopo del viaggio era visitare le grotte di Toirano; quella era la facciata, almeno. La finalità non detta, infilata tra le pieghe del depliant, era l’acquisto di una macchina portentosa che ridona elasticità ai muscoli e alle articolazioni e costa appena tremila euro (pagabili anche con comode rate). All’andata si canta e ci si conosce, al ritorno si trema mentre con tutte le proprie forze ciascuno cerca di escogitare un sistema per sfuggire alla vendita e ai venditori. Sono inesorabili. Un segno di cedimento e ti ritrovi a firmare ancora prima di capire che cosa stai facendo.

Tornando a noi, il bus fa una sosta (età media dei partecipanti alla spedizione: 65 anni; numero alto, inversamente proporzionale ai minuti che possono trascorrere senza che almeno un paio di essi non debba utilizzare la toilette). Mia zia va in bagno, poi entra in autogrill per un caffè, esce e il pullman è scomparso.

Ho vivida in mente l’espressione di mio padre, strappato al divano, con la cornetta premuta contro l’orecchio:

-Ti è successo che cosa? -dice.

Tracce di pneumatico sull’asfalto ("Accompagna tuo fratello, non credo avrà il cuore di ammazzarsi con te sopra la macchina", bacio guancia sinistra, bacio guancia destra e mia mamma che fa ciao metri e metri oltre il lunotto).

-Sei ancora tanto arrabbiato? -domando al mio fratellone.

-Stai zitto o ti scarico senza fermarmi.

Sarebbe capace di farlo? Domanda errata. La domanda corretta è:

Perché correre il rischio?

Il grande amore che mio fratello nutre per me richiama quello che ho passato fino all’anno scorso a scuola, quando i miei voti erano segni di scabbia per i trogloditi che la frequentavano. La cosa più carina che hanno fatto per me è stata appiccicarmi sulle spalle un foglio bianco con su scritto a caratteri cubitali "Sono un grande coglione" e lasciarmelo appeso alla maglia fino alla fine delle lezioni. Due anni di medie vissute pericolosamente e poi, su suggerimento di un insegnante, i miei hanno accettato di spostarmi in un altro istituto, una scuola speciale per bambini precoci. Io immaginavo un luogo tipo la scuola di Charles Xavier, con tanto di X-men e compagnia bella sottoterra, e invece... Pareti scrostate, ragazzini silenziosi, professori svogliati. Certo, meno angherie, questo sì, ma nessun cambiamento sostanziale.

Ecco, mio fratello che minaccia di scaricarmi in autostrada è un tuffo nel passato. Mi scoraggia e mi rincuora al tempo stesso, un po’ come dire... tutto cambia e niente cambia.

Leggo su un cartello che mancano pochi chilometri all’obiettivo.

-Ma com’è possibile che si siano scordati zia in autogrill? -chiedo, tanto per rompere il silenzio.

Le dita dell’autista afferrano la manopola del volume e la ruotano in direzione del segno +.

Tiziano Ferro a palla mi suggerisce che è meglio tacere.

Servizio. Di. Area.

Svoltiamo lentamente verso il parcheggio. Mio fratello rallenta, si avvicina alla tettoia e ferma l’auto. Prende il cellulare e fa partire una chiamata.

-Io. Siamo in autogrill. Non lo so dove sta. Sì, adesso scendo e vado a cercarla. Sì, siamo interi. No, non ho maltrattato mio fratello. No. Va bene. Certo che sono andato piano. Mamma, non rompere. Sì, la carichiamo e riparto. Ciao. Sì. Ciao.

Stacca.

Si volta verso di me.

-Vai a cercare la svitata. Vi aspetto in macchina.

Sto per reclamare, ma non lo faccio. Esco e chiudo lo sportello, sento la pioggia tra i capelli. Corro fin dentro il locale, dove fa un caldo pazzesco; difficile non vederla, con quei suoi capelli rossi e il vestito a fiori che le vedo addosso da quando ho ricordi.

Vado verso di lei, sta fissando la coca nel bicchiere, la rimescola con la cannuccia e sembra papà dopo che ha preso le medicine, come se dormisse con gli occhi aperti.

-Zia -dico.

Lei solleva il viso e mostra occhi rossi e cerchiati di scuro.

Sorride.

Io ho dodici anni e lei ne ha quaranta più di me; tra noi ci sono così tanti anni che non dovrei aver niente a che spartire con quello sguardo, e invece mi sembra proprio di capire che cosa c’è dietro di esso: un panorama desolato di illusioni e sconfitte, il vuoto lasciato da persone che ti hanno tradito, la prospettiva della solitudine che diventa sempre meno un timore e sempre più una concreta realtà. In quel sorriso abbozzato c’è tutto un mondo che va in frantumi e tutta la tristezza necessaria a reprimere l’impulso di ammetterlo.

-Mi hanno scordata qui -dice.

Io scrollo le spalle.

-Andiamo a casa?

-Mangiamo qualcosa prima? C’è papà fuori?

-No, c’è Lorenzo.

-Vallo a chiamare. Vi pago cena.

-Io non credo che sia una buona idea.

-Sciocchezze. Vai a chiamare quell’orso di tuo fratello.

Giro sui tacchi e corro verso la macchina.

Busso al finestrino. Lorenzo lo abbassa e scuote il capo, dire una parola per lui è sempre decisamente troppo.

-Zia vuole offrirci cena.

-Portala qui immediatamente o vi ci lascio in autogrill.

-Lorenzo, per favore, non puoi parlarle tu?

-Caccola, ho guidato per centocinquanta chilometri e ne devo fare altrettanti per portarvi a casa. Parlaci tu. Sei un genio, no? Vedrai che riuscirai a convincerla.

Accade una cosa inaspettata. Sotto la pioggia appare la sagoma di zia, se ne sta appollaiata accanto al finestrino del passeggero, fa scudo con le mani per vedere meglio nell’abitacolo.

-Scendi immediatamente dalla macchina, giovanotto. E tratta meglio tuo fratello. Voglio mangiare qualcosa e voglio offrire una cena ai miei nipoti. Forza.

Lorenzo infila una sequenza di brutte parole, leva le chiavi dal quadro, apre lo sportello e scende; dieci minuti dopo siamo seduti a un tavolo del self service, a consumare la nostra cena.

L’ultimo boccone ha un sapore salatissimo, ma l’aranciata aiuta a mandarlo giù. Lorenzo infila in bocca una patatina fritta per volta, con lentezza esasperante. Zia addenta una mela.

Nessuno fiata. Nella mia famiglia è così. Nessuno parla mai, tutti sempre troppo presi a pensare ai propri guai, alle cose che non si hanno, a quelle perse, a quelle desiderate; sempre distratti dal futuro, incapaci di vivere nel momento, proiettati in un film ancora da girare. Questa è una cosa che mi fa arrabbiare terribilmente. Perché non si può per una volta essere non dico felici, ma almeno presenti a quello che si fa? Perché fermarci in questo posto e mangiare tutti insieme, se poi ciascuno resta intrappolato nel proprio silenzio?

Questa cosa mi fa male sul serio... C’è mio padre, che ha perso il lavoro a due anni dalla pensione e con il lavoro ha perso il sogno di diventare non so bene che razza di funzionario e con quel sogno ha perso se stesso. Non può guidare per i farmaci che prende, non può lavorare per i farmaci che prende, non fa che oziare davanti alla TV. Mia madre, oh, mia madre, così orgogliosa di me da ripetere in continuazione che quando sarò questo gran professore, o chirurgo, o giornalista, o vattelappesca tutte le rinunce e gli smacchi e le sfortune saranno in qualche modo ripagati. E poi mio fratello, diplomato a fatica dopo ben due anni ripetuti alle superiori, un posto da garzone in un officina meccanica, una ragazza diversa al mese, sempre scuro, sempre polemico, sempre violento, innamorato soltanto della propria stupida auto. E cosa dire di zia? Si può sintetizzare tutto in una parola. Lacrima. Mia zia è il veicolo che le lacrime usano per spostarsi da un luogo all’altro. Non ne posso più.

-Ma che senso ha? -sbotto, imprevedibilmente, ad alta voce. Catturo il loro interesse. -Che senso ha cenare insieme o lavorare in officina o andare a una scuola per geni o a una gita organizzata se poi non facciamo altro che piangerci addosso e sperare e sperare e di continuo sperare in qualcosa che prima o poi possa cambiare la nostra vita? Uffa. Perché per una volta non possiamo parlare e scherzare come persone normali? Perché per una volta non possiamo essere felici? Anche solo in questo momento, in autogrill, per un secondo soltanto, perché no?

Per prima cosa si sente lo stridore dei freni, poi arriva la botta. Oltre la vetrata vedo l’auto di mio fratello con addosso un camper. Retromarcia decisamente avventata; l’autista del mezzo scende sotto la pioggia e guarda in direzione dei tavoli, come sapesse che la macchina è nostra; allarga le braccia e parla, forse impreca, forse piagnucola.

Mio fratello salta in piedi e inghiotte la patatina; mi aspetto che esca di corsa per ammazzarlo, così, su due piedi; invece, senza preavviso e senza apparente motivo, scoppia a ridere. La sua è una risata piena, goduta, contagiosa. Mi metto a ridere pure io, e a ruota inizia mia zia. Così, alla fine, ce ne stiamo in quest’autogrill a ridere come cretini, senza ragione, ma finalmente presenti, finalmente consapevoli di essere qui dove siamo, con la volontà infantile e sfrontata di provarci almeno per questa volta a essere felici nei ritagli di tempo.

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Ho in mente la faccia spigolosa di Michael Rennie in “Ultimatum alla Terra”, mentre arringa la folla circa i rischi della violenza.

Sì, ricordo bene Michael Rennie in quel film: nonostante gli spigoli dava un'impressione rassicurante, una via di mezzo tra un venditore di enciclopedie e un testimone di Geova. Guardando il film si capisce che il vero alieno non è lui ma il ragazzino: troppo ben educato e rispettoso per essere un bambino dei tempi di oggi... un extraterrestre appunto.

Dietro di lui il disco volante è così finto e ingenuo che quasi mi fa piangere. Sapete, una di quelle cose che ti fanno venire tristezza, una sensazione di malinconia, di struggimento, la consapevolezza che tutto prima o poi finisce.

Eh no, questa scusate mi pare una ca22ata. Passi la sensazione di malinconia però finte e ingenue saranno quelle boiate di astronavi galattiche da Guerre Stellari in avanti. E se mai dovessi vedere un veicolo alieno, me lo aspetterei proprio come quello di Ultimatum alla Terra.

Casomai l'ingenuità la si può riscontrare nel doppiaggio italiano dell'epoca che tradusse la parola spaceship con qualcosa tipo "aereo stellare" invece che nave spaziale oppure astronave. ecco, lì ho provato vero struggimento.

Il resto del racconto non sono riuscito a seguirlo, mi ricorda Ferzan Ozpetek.

p.s.

se avete Firefox sicuramente non sapete che esiste una paginetta nascosta visualizzabile scrivendo: about:robots dal titolo Gort: Klaatu, Barada, Nikto! la mitica frase del film. :unsure:

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bell'uovo di pasqua

:unsure:

E cosa dire di zia? Si può sintetizzare tutto in una parola. Lacrima. Mia zia è il veicolo che le lacrime usano per spostarsi da un luogo all’altro

Jolly, ma è tristissima!!!

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  • 2 weeks later...

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