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Spiritualità


Jolly28

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Ad esempio, ciò che rende grottesca la perdita della bellezza in molte donne è la disperata illusione che le ha portate a scambiarla per cosa propria. Steusso discorso per ogni altra qualità; in primo luogo lintelligenza. Tanta più ne hai, quanto più ti accorgi che le sue origini si perdono in un Altrove Assoluto, che non ti appartiene più di quanto ti appartenga il sole; tuttavia, rimane certo, che la tentazione di metterla sul conto del tuo ego non smetterà di torturarti fino al momento della sua estinzione.

Vorrei sapere la tua opinione sulla bellezza femminile e non solo. Il mio ego ultimamente si arrovella su un enigma, ossia se essa sia una manifestazione del divino oppure se sia l'ennesimo specchio illusorio della caducità umana (o entrambe le cose al contempo, o nessuna). Mi piace più pensare la prima ipotesi, ma con gli anni mi rendo sempre più conto che l'apparenza è più che mai figlia dell'illusione e la bellezza sembrerebbe incarnarne la quintessenza. Inutile dire che ne sono molto attratto, ma cerco di ammirarla in silenzio o meglio di gioirne con distacco limitandomi per lo più alla pura contemplazione (quando l'istinto non ci mette lo zampino). Sto facendo confusione?

Modificato: da bmare
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La risposta alla tua domanda la danno due miei grandissimi Maestri: Platone e Dostoevskij; per il primo, la bellezza è lo splendore del vero (la grecità classica coniò un termine intraducibile, “kalokagathìa” che è crasi e sintesi di bellezza e verità). Per il mondo antico era evidente che fosse così, oggi non può esistere un termine corrispettivo, a causa del fatto che non esiste un orizzonte mentale in cui si possa collocare.

Dostoevskij, parlando per bocca del principe Miskin, ossia l’Idiota, ci dice che la bellezza salverà il mondo. Dostoevskij è abissale, immenso come scrittore, è ancora più eccelso come filosofo; tanto che Nikolaj Berdjaev (il più profondo teologo del secolo scorso), di lui ebbe a dire: "…forse la filosofia gli ha insegnato poco, ma la filosofia ha molto da imparare da lui". D’altro canto, basta leggere “I fratelli Karamazov”, e “I demoni”, per fare riverenza davanti al suo genio.

Per quello che posso dire io, la farfalla manifesta in modo insuperabile la problematicità della bellezza terrena, il suo irresistibile richiamo, e la sua effimera caducità. La sua vita è brevissima, e se la si tocca muore.

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Siamo come il piccolo coleottero della foto, che (dopo il primo vasetto) cerca di uscire dal recinto più grande (delle apparenze), ma come lui finiamo col ritrovarci in un vaso più grande?

E' questo il senso delle matrioske (le più grandi sono i vestiti che l'ego/mente/civiltà mette addosso alla coscienza/spirito/libertà)?

La candela di tonino è nel vaso piccolo? o sta oltre? i vasetti sono infiniti, o no?

La successione di Fibonacci parte da 1.

"Arrivando a 1" [antimateria (0=infinito) che diventa materia (1=finito)] scopriamo la sezione aurea (Dio) che è infinito?

Che ne pensate?

E' niueggiano?

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Modificato: da bmare
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Molta attenzione a non confondere l'indefinito con l'Infinito. Gli indefiniti sono moltissimi, letteralmente innumerabili. E' all'indefinito che si riferisce Cantor con la sua teoria del "transfiniti", non all'Infinito, che è Uno, anzi molto più correttamente, Non-Due.

Qualsiasi modalità dell'indefinito è, e non può essere altro se non una estensione non numerabile del finito; ma per quanto oltre ogni misura umanamente concepibile, ogni indefinito rimane interamente nella sfera del finito. L'esempio più prossimo è la serie dei numeri naturali: deve essere necessariamente finita, giacché,le sue parti costituenti sono finite, e una somma di finiti non può che essere finita. Il fatto che non è dato conoscere quanto questa serie sia grande, la rende indefinita, e non Infinita; giacché l'Infinito non ha parti (se ne avesse, sarebbe un finito innumerabile tra tanti).

Da questa confusione, che è il perno del niuegismo, bisogna stare alla larga.

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E' all'indefinito che si riferisce Cantor con la sua teoria del "transfiniti", non all'Infinito, che è Uno, anzi molto più correttamente, Non-Due.

Preziosissimo come sempre.

E lo zero? è dove si "incrociano" (croce?) gli assi cartesiani (dove si i incontrano gli indefiniti?).

Puoi aiutarmi a capire meglio il "non-due"?

Modificato: da bmare
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E' all'indefinito che si riferisce Cantor con la sua teoria del "transfiniti", non all'Infinito, che è Uno, anzi molto più correttamente, Non-Due.

Preziosissimo come sempre.

E lo zero? è dove si "incrociano" (croce?) gli assi cartesiani (dove si i incontrano gli indefiniti?).

Puoi aiutarmi a capire meglio il "non-due"?

Il Non Due è il cuore della Sophia Perennis. La più straordinaria formulazione disponibile è fornita dall'Advaita Vedanta (Advaita Vada; ossia, "Dottrina della Non Dualità"). Il migliore commento in assoluto è quello di Shankara; credo che sia disponibile anche in traduzione italiana. L'aspetto apofatico della Dottrina della Non-Dualità è reso dall'insuperabile Nagarjuna, ne "Le stanze del cammino di mezzo". Ritengo, tuttavia, che Shankara sia più comprensibile di Nagarjuna, la cui lettura può essere persino disperante.

Quanto alla tua domanda, il punto di intersezione degli assi della Croce è lo "Zero Metafisico". Impossibile anche solo accennare a questo tema su un forum; ritengo che il saggio di Guènon "Il simbolismo della croce" sia insuperato e forse insuperabile.

Tra non molto apro un topic, dove annuncio di aver trovato la soluzione di un antico e classico paradosso. Per la verità, i paradossi sono irrisolvibili, sennò non sarebbero tali. Ho scoperto che non si tratta affatto di paradosso; ma di una questione da sempre impostata nel modo sbagliato, e pertanto irrisolvibile (e quindi classificata come paradosso). :fatto:

Modificato: da Satori
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Tra non molto apro un topic, dove annuncio di aver trovato la soluzione di un antico e classico paradosso. Per la verità, i paradossi sono irrisolvibili, sennò non sarebbero tali. Ho scoperto che non si tratta affatto di paradosso; ma di una questione da sempre impostata nel modo sbagliato, e pertanto irrisolvibile (e quindi classificata come paradosso). :fatto:

Sarà sicuramente interessante, come lo sono gli spunti di lettura e approfondimento suggeriti.

Mi è tornata in mente un'idea di qualche settimana fa. Mi dedico sempre di più all'osservazione della natura, alla ricerca della verità. La mia ipotesi di fondo è che il creatore abbia utilizzato modelli e schemi nell'organizzazione naturale, che possono essere usati per togliere il velo da quella che la civiltà moderna chiama "realtà condivisa".

Osservando le api e leggendo lo schema sociale che hanno, mi ha colpito il ruolo dell'Ape Regina.

"L'ape regina è un individuo adulto, fertile, femminile della colonia d'api; è normalmente la madre di tutte le api presenti nell'alveare. La regina si sviluppa da una larva selezionata dalle api operaie e nutrita con pappa reale al fine di renderla sessualmente matura. In situazioni ordinarie, all'interno della famiglia d'api è, quindi, l'unico individuo fertile.

La regina si sviluppa più completamente delle operaie (sessualmente immature) poiché le viene fornita, per un lungo periodo di tempo, la pappa reale, una secrezione delle ghiandole presenti sul capo delle giovani operaie. Essa si sviluppa in una cella (la cella reale) appositamente costruita, più grande delle ordinarie celle dell'alveare, e che è orientata verticalmente anziché orizzontalmente.
Le migliori regine emergono da celle reali di sciamatura. Mentre la giovane larva di regina pupa con la testa all'ingiù, le operaie rinchiudono la parte superiore della cella con cera. Quando è pronta per uscire, essa si apre con i denti un varco circolare sul sopra della cella, che appare come un coperchio incernierato. Celle reali che appaiono aperte su un lato indicano che probabilmente la regina vergine è stata uccisa da una rivale.
Quando le giovani regine sono pronte ad emergere, spesso cominciano a emettere uno stridio, udibile anche all'esterno dell'arnia da un orecchio esperto, che avrebbe lo scopo di avvisare le altre regine vergini pronte ad emergere dalla propria cella reale (regina canora). Se non sono bloccate dalle api operaie, le neonate regine vergini, una volta emerse, possono rapidamente raggiungere ed uccidere le regine rivali mentre sono ancora all'interno della loro cella. Nel periodo della sciamatura, le api operaie possono tenere separate le giovani regine, al fine di averne diverse di vive per un periodo più lungo. Le regine in eccesso possono allontanarsi dall'arnia con uno sciame primario o secondario per dividersi così in nuove famiglie. La separazione delle regine vergini può rappresentare pure un'ulteriore precauzione per la sopravvivenza dell'alveare. Nel periodo precedente alla sciamatura la vecchia regina blocca la ovideposizione parecchi giorni prima di allontanarsi con lo sciame primario. Di solito ci sono diverse celle reali in via di maturazione all'interno dell'alveare. Se una regina vergine non rientra da un volo nuziale, le api possono supplire con una di queste di riserva. Una famiglia orfana che non ha larve di meno di quattro giorni non può far sviluppare una regina di emergenza.
La regina vergine sopravvissuta in una famiglia, in una giornata calda e soleggiata vola fuori dell'alveare per accoppiarsi con 12-15 fuchi. Lo sperma dei fuchi viene "stivato" nella spermateca della regina. La fecondazione avviene successivamente, quando un uovo dall'ovidotto si avvicinerà all'uscita e in quel momento uno spermatozoo lo andrà a fecondare, passandogli tutti i caratteri genetici del fuco padre. È preferibile quindi l'espressione "volo nuziale" rispetto a "volo di fecondazione", usata da molti apicoltori ma inesatta. Da un uovo fecondato nasce un'ape, "diploide", cioè con i caratteri genetici sia del padre che della madre. Da un uovo non fecondato nasce invece un fuco, "aploide", in quanto ha solo i caratteri genetici da parte di madre. Un'ape regina la cui spermateca si è esaurita o non è mai stata riempita è detta "regina fucaiola", perché depone uova da cui possono nascere solo fuchi. Questo può avvenire se la regina vergine non esce dall'alveare dopo una ventina di giorni dalla nascita, ad esempio a causa del maltempo. Il suo istinto le farà cominciare il suo compito di ovodepositrice che la porterà a deporre uova aploidi. La presenza di una regina fucaiola in genere rappresenta la fine di una famiglia, in quanto le api operaie non hanno più uova e/o larve neonate da cui allevare una nuova regina, e non vi sarà più il ricambio delle operaie stesse. Inoltre, se vi è un insufficiente numero di fuchi, oppure le condizioni atmosferiche sono sfavorevoli per un accoppiamento ottimale, può succedere che la regina accumuli nell'apposita spermateca pochi spermatozoi maschili, cosicché resterà fertile per un periodo variabile ma inferiore ai 2-3 anni che rappresentano la norma. Appena comprendono che la regina non è più efficiente, le api operaie possono tentare di sostituire la regina, a patto che le condizioni meteorologiche e stagionali permettano un nuovo volo nuziale, e se vi siano abbastanza fuchi in circolazione. Un caso particolare e raramente osservato (nelle api del Capo, in Sud Africa, ed in alcuni ceppi di api americane ed europee) è la riproduzione per partenogenesi, in cui regine ed operaie possono nascere da uova non fecondate deposte da api operaie.
La sostituzione è il processo col quale la vecchia regina viene sostituita da una nuova regina. Ciò può avvenire naturalmente oppure essere indotto. La sostituzione naturale avviene per l'età avanzata (2 anni) della vecchia regina, oppure per una sua malattia o qualsiasi altro difetto che la renda meno efficace nella sua funzione. Una delle cause collegate all'età è il calo di emissione di feromone reale. Sembra che anche la malattia del nosema delle api sia implicato nella sostituzione della regina.
Il processo di sostituzione naturale inizia con la preparazione di celle reali per iniziare l'allevamento di nuove regine che sostituiranno la vecchia, ancora attiva nella ovideposizione. La posizione di queste celle (generalmente nei bordi dei telaini di covata) differisce da quella delle celle di emergenza (poste in genere nel centro del telaino di covata): ciò è dovuto al fatto che, se la vecchia regina scompare, o non è in grado di ovideporre, le operaie devono utilizzare uova o larve già deposte, e quindi in posizione centrale. Quando la nuova regina è pronta le operaie uccidono la precedente regina per raggomitolamento (le operaie avvolgono la regina formando una massa che porta alla morte per surriscaldamento e soffocamento). Il raggomitolamento viene usato anche per uccidere nuove regine introdotte nell'alveare senza precauzioni dall'apicoltore (in quanto non riconosciute come tali e quindi ritenute estranee) oppure grossi predatori (come per es. vespe che si introducono nell'alveare a caccia di larve). La sostituzione con celle reali può essere effettuata solo se vi è presenza di fuchi in grado di accoppiarsi con la nuova regina.
Un'ape regina vergine è un'ape regina che non si è ancora accoppiata con dei fuchi; presenta dimensioni intermedie tra l'ape operaia e l'ape regina feconda residenziale, ed è molto più attiva che nei periodi successivi. È difficile individuarla ispezionando un telaino, perché corrono attraverso il favo, saltando sopra le api operaie, se necessario, e possono perfino alzarsi in volo se disturbate a sufficienza. Possono essere notate soffermandosi sulle pareti e sugli angoli dell'arnia durante l'ispezione.
Pare che le api regine vergini emettano poco feromone reale e spesso non vengano riconosciute come regine dalle api operaie. Un'ape regina vergine nelle sue prime ore dopo l'emergenza dalla cella reale può essere introdotta nell'ingresso di un alveare orfano ed essere accolta, mentre un'ape regina fecondata è di solito riconosciuta come estranea e corre il rischio di essere uccisa dalle operaie più anziane.
Le api regine vergini possono rapidamente trovare ed uccidere (utilizzando il pungiglione) qualsiasi altra regina emersa, o essere soppresse a loro volta, così pure come ogni regina non ancora emersa dalla cella reale, individuata tramite il canto (le regine ancora racchiuse nelle celle reali in procinto di uscire rispondono al canto della regina vergine libera).
Osservando una cella reale si può comprendere se la regina è uscita (in tal caso la sua punta è tagliata e aperta) oppure è stata soppressa (allora vi è un foro laterale attraverso il quale la regina libera ha trafitto quella ancora racchiusa).
Potrebbe accadere che un'ape regina non sopravviva ad uno dei suoi diversi voli nuziali, e questo comporterebbe l'orfanità dell'alveare; nel caso di sostituzione forzata della regina è importante verificare sempre la presenza della stessa.
Quando una famiglia è sul punto di sciamare le operaie impediscono alle regine vergini di combattere, cosicché una o più di queste volano via con parte delle api, mentre le altre restano nell'alveare: in alcune razze, quali l'ape siciliana, possono essere presenti anche decine di vergini. Quando lo sciame trova una nuova sistemazione le regine vergini riprendono il loro comportamento normale e combattono fino alla morte, col risultato che una sola sopravvive. La vecchia regina sciamata, che continua a vivere e ovideporre, nell'arco di un paio di settimane viene soppressa e sostituita dalla regina sopravvissuta, ormai fecondata.
Con canto della regina si intende il rumore emesso dalle api regine. Le regine adulte comunicano attraverso segnali vibranti: suoni acuti da parte delle regine vergini nelle loro celle regali e modulati da parte delle regine libere nella colonia. Una regina vergine può emettere il canto frequentemente prima di emergere dalla sua cella e per un breve periodo in seguito. Le regine accompagnate possono emettere questo richiamo brevemente dopo essere state rilasciate in un alveare. Il canto è descritto in vari modi come la trombetta suonante e schiamazzante di un bambino. È abbastanza rumoroso e può essere sentito chiaramente fuori dall'alveare. Il canto è prodotto dal moto del volo senza il movimento delle ali. L'energia della vibrazione risuona nel torace.
Quando nell'alveare è presente più di un'ape regina, il canto è più frequente. Si pensa che questo richiamo sia una forma di grido di guerra per la regina avversaria e un invito ai fuchi a volare. Potrebbe anche essere un segnale per avvisare le api operaie che la regina è colei che merita più sostegno di chiunque altro. Una recente teoria ipotizza che il canto sia emesso dalla regina in procinto di sciamare per assicurarsi della presenza di celle feconde e per ritardare la nascita delle vergini.
Il canto è un sol diesis o un la naturale. La regina adulta emette il richiamo per una pulsazione di due secondi seguita da una serie di suoni di un quarto di secondo. La regina delle api africanizzate produce canti più vigorosi e frequenti.
L'addome dell'ape regina è visibilmente più lungo di quello delle operaie che la circondano. Nonostante questo, può essere difficoltoso per un apicoltore rintracciarla in una famiglia di 60-80.000 api, nonostante la sua esperienza. Per questo molte regine allevate vengono marcate grazie a un pennarello colorato o appositi dischetti colorati e numerati, incollati sopra la nuca in prossimità dello scutello. Questa tecnica non crea problemi alla regina (a parte il rischio di danneggiarla durante la marcatura e il pericolo temporaneo di un suo non riconoscimento da parte delle operaie per eventuali nuovi odori che la regina stessa può presentare dopo l'operazione), la marcatura rende più facile il suo rintracciamento all'interno del nido. Inoltre i colori utilizzati permettono, secondo un codice standardizzato, di indicare l'anno di nascita della regina stessa (vedi tabella). Questo artifizio permette all'apicoltore di conoscere l'età delle sue regine e di valutare l'opportunità o meno di una loro sostituzione." (Wikipedia - lo so è lungo)

Cercando per assurdo (e superbamente) di mettermi nei panni del creatore supremo (irrivelato e imperscrutabile) ho cercato di trasferire il modello sociale delle api all'uomo. Lo so è una forzatura.

La domanda che mi pongo è la seguente: se uomini e donne sono i fuchi e le operaie, chi è la regina?

Le api mostrano un evidente schema gerarchico piramidale, frutto dell'evidente evoluzione naturale per garantirne la sopravvivenza.

Ma lo schema di fondo potrebbe essere universale.

Potrei ipotizzare che la regina sia la Terra stessa (Maya, la madre terra, ma anche l'illusione, oppure la Coscienza stessa).

Ma se fosse diversamente? se l'uomo fisico non fosse in cima alla "catena alimentare"?

Se la regina fosse il Demiurgo platonico con i suoi subalterni ("arconti" etc..)?

Forse che in passato se ne siano accorti e che ad es. il buddhismo tibetano, con il tantrismo e tutte le pratiche non sia in realtà il tentativo di non nutrire più Demiurgo&C (che si serve dello "spirito di opposizione" = ego maschile mentale pompato all'eccesso) ma la sola divina e femminile Coscienza (con i chakra aperti)?

Del resto pure il Demiurgo&C vuole sopravvivere (sono gli angeli caduti? del resto Dio nella sua infinita bontà dona la scelta [libero arbitrio] pure a loro).

Se è niueggiano, portate pazienza (per ora ragiono ancora così :P )

(il video qui sotto è in spagnolo, ma si capisce piuttosto bene)

Modificato: da bmare
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Così, su due piedi, la prospettiva che (per me) meglio rende conto di certi fenomeni naturali come la struttura sociale dell’alveare (ma penso anche al formicaio) è quella indù. Precisamente, nelle nozioni di Maya e Lila.

Faccio subito notare che il termine Maya, pressoché invariabilmente tradotto con “Illusione”, è solo uno dei suoi significati. La sua radice (decisiva per le diversificazioni semantiche) deriva dal verbo “ma” (la stessa spiccicata di mater, materia, ecc…) e conferisce a “Maya” il significato basilare di “misurare”; ed altri come “plasmare” “erigere”, ecc… Sintetizzando forse oltre il lecito la cosmogonia indù, uscendo quindi dalla sfera del mito, e tenendo conto che sono un occidentale che parla ad occidentali, potrei dire che Maya è il punto di interfaccia tra L’Assoluto non qualificato (Brahman, o Brahma nirguna, “nir” è privativo) è l’Assoluto qualificato (Brahma saguna; “sa” significa “con” e “guna” significa attributo o qualità). E’ questo il punto di inizio della manifestazione universale, o creazione; ed è concepito, nelle dottrine indù, come un atto deliberato di auto-limitazione dell’Infinito e dell’Assoluto, nella innumerabilità delle possibilità del relativo e del finito. Dunque, Maya è basicamente l’universo (di cui quello dove alloggiano le stelle è solo una modalità) degli enti, che per potersi diversificare devono di necessità essere limitati, e dunque finiti, e legati l’un l’altro da una rete di relazioni. Posto ciò, Maya si fa l’illusione che la separatività e la finitezza siano intrinseche alla natura del Reale; mentre il finito è solo un modo che l’Infinito ha scelto (termine usato solo in modo analogico) per giocare a nascondino con se stesso. E questo ci porta alla nozione parimenti fondamentale di “Lila”; ossia del “gioco divino”, o dell’”universo come gioco”.

Cosa c’è di più gratuito e libero del gioco? E quale mente ottenebrata può non vedere nella danza delle api, o nell’instancabile ed insuperabile opera architettonica di un alveare o di formicaio un gioco estatico e una manifestazione di infinita intelligenza, gioia e bellezza?

E cosa c’è di più idiota del pensare che Maya debba essere “superata” e sbugiardata? Allora, perché non abolire il ballo, la musica, mettere la camicia di forza ai bambini, e dichiarare fuori legge il riso??

Perché sorride il Buddha? Perché tutta questa seriosità quando si parla di cose Spirituali? Perché la danza delle api, la loro (umanamente) inconcepibile capacità di auto-immolazione diventa un problema da risolvere, anziché un’occasione per togliersi la corazza, e impazzire?? Perché??

Mi giro, e dalla finestra guardo la luna, che, senza essere sotto contratto, spacca il buio della sera. Le chiedo di mettere una parola buona per questo povero mondo.

Modificato: da Satori
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Mi giro, e dalla finestra guardo la luna, che, senza essere sotto contratto, spacca il buio della sera. Le chiedo di mettere una parola buona per questo povero mondo.

Qui è coperto stasera, ma ieri era enorme e bellissima, pure tendente al rossiccio (l'avremo fatta arrabbiare, non tu Satori). Mo' ci provo anch'io appena si ripresenta a mettere una bella parola (rimetto a posto la candela). Uscire da Matrix può essere peggiore che restarci dentro se si cade in una selva ancora più oscura. Grazie Virgilio, ehm.. volevo dire, Satori. :blush:

Modificato: da bmare
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"Dunque io non credo all'esistenza di Dio per fede: io so che Dio esiste." Carl Gustav Jung
"Chiamiamo caso la nostra incapacità di spiegare la concatenazione degli eventi" Jorge Louis Borges
« Io che conosco bene l'idee tue
so' certo che quer pollo che te magni,
se vengo giù, sarà diviso in due:
mezzo a te, mezzo a me...Semo compagni
No, no - rispose er Gatto senza core -
io non divido gnente co' nessuno:
fo er socialista quanno sto a diggiuno,
ma quanno magno so' conservatore » Trilussa
“L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. E’ in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire." Blaise Pascal
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Amo molto Pascal, grande filosofo e matematico, e ancor più grande uomo; ciò non ostante, e ne è testimone proprio questo passo, casca a più pari in due tra i capitali vizi culturali dell’Occidente.

Il primo è considerare l’universo una macchina cieca, ottusa ed ostile; rimanendo (noi sì!!) ciechi, incredibilmente, all’evidenza che giusto noi siamo il prodotto di questo universo, che logicamente non può essere meno intelligente di ciò che produce.

Il secondo errore è far coincidere la dignità umana col pensiero (ossia con l’attività speculativa, astraente, razionale, algoritmica); anziché con l’Intelletto, per come concepito e formulato da Aristotele, Tommaso, e ancora da Fichte, fino al suo assassinio effettuato da Immanuel Kant, un secolo dopo Pascal.

Non vedo, poi, cosa ci sia di così “dignitoso” nella facoltà di pensare e speculare; ma capisco, perché tale viene ritenuta: quale migliore occasione per rimirarsi in un uno specchio (speculare viene da speculum, ossia specchio), e guardare in diretta la propria vanità gonfiarsi??

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D'accordissimo, con te anche se non sarei riuscito a spiegarlo così bene.

All'inizio volevo solo lasciare Jung, poi mi sembrava giusto rendere comunque merito anche agli errori di un grande pensatore come Pascal.

Satori, ho sorriso quasi tutto il giorno pensando alla tua risposta e all'espressione del tuo volto quando hai letto il mio ultimo post sulla gallina. :hahaha:

E' raro che sorrida così sinceramente di gusto, nemmeno mi ricordo quand'è stata l'ultima volta.

Modificato: da bmare
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D'accordissimo, con te anche se non sarei riuscito a spiegarlo così bene.

All'inizio volevo solo lasciare Jung, poi mi sembrava giusto rendere comunque merito anche agli errori di un grande pensatore come Pascal.

Satori, ho sorriso quasi tutto il giorno pensando alla tua risposta e all'espressione del tuo volto quando hai letto il mio ultimo post sulla gallina. :hahaha:

E' raro che sorrida così sinceramente di gusto, nemmeno mi ricordo quand'è stata l'ultima volta.

Se c’è una cosa che tutti dei di tutti gli Olimpi invidieranno sempre agli uomini, e che allo stesso tempo li farà anche arrossire di vergogna, è il fatto che gli umani possano ridere e piangere; ma soprattutto, non cesseranno di invidiare l’aspetto tragico della vicenda umana. Nessuna commedia ha saputo attraversare gli abissi dei secoli e dei millenni; la tragedia sì. Antigone è oltre il tempo, lo stesso il dolce principe di Danimarca, e il tragico burattino del castello di Inverness. Se la parola “dignità” ha un significato e un orizzonte, tale significato e tale orizzonte si stagliano contro il muro insuperabile dell’impossibilità umana ad eludere la sofferenza.

Quanto a Jung, c’è solo da perdonargli la sciocchezza che profferì in quella famosa intervista radiofonica. Né lui, né nessun altro ha mai conosciuto Dio; per la elementare ragione che Dio è inconoscibile; tanto assolutamente inconoscibile, che è inconoscibile persino a Se Stesso, concetto non proprio intuitivo, che esprimo facendo mie le illuminate parole di Scoto Eriugena: “Dio non conosce se stesso, non conosce ciò che è perché non è un che; in un certo modo, Egli è incomprensibile a se stesso e ad ogni intelletto.”.

Con buona pace di Jung, e di tutti coloro che sanno cose di Dio e su Dio.

Quanto all’averti propiziato il riso, credimi, ne sono contento. Però attento, più ci si addentra nel comico, e più ci si tira dietro il tragico. L’uno è ombra dell’altro.

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le illuminate parole di Scoto Eriugena: “Dio non conosce se stesso, non conosce ciò che è perché non è un che; in un certo modo, Egli è incomprensibile a se stesso e ad ogni intelletto.”.

E lui come fa a saperlo? :ciglia:

Quella di Eriugena si chiama, per nulla a caso, “teologia negativa”, o apofatica, la quale, per dirla in breve, afferma che di Dio non si può predicare nulla, se non in modo negativo. Cioè, si può dire ciò non è, e non ciò che è. Tale posizione non è affatto, come magari potrebbe sembrare a chi non si occupa di queste cose, fondata su una qualche arbitrarietà della fede; ma, all’esatto contrario, su una logica che non lascia scampo. Si possono conoscere esclusivamente cose, oggetti, e classi di cose o di oggetti. Per estensione, è dato conoscere classi di classi, classi di classi di classi, ecc.. Se Dio fosse una qualsiasi cosa conoscibile, per quanto inimmaginabilmente grande e speciale, sarebbe ancora limitata dal fatto di essere pur sempre una cosa tra altre cose, e quindi da queste limitata, e quindi finita. Dato che la facoltà razionale può conoscere soltanto oggetti, o classi di oggetti, per tale ragione non potrà mai conoscere Dio, che non è né oggetto, né soggetto.

Nell’enunciato di Eriugena non c’è contraddizione alcuna; giacché egli non dice nulla della natura di Dio, e pertanto non c’è nulla da confutare. Egli si limita a produrre un’evidenza logica; all’interno dell’universo linguistico (e se vogliamo parlare, non possiamo uscirne), nessun soggetto può conoscere se stesso, se non facendosi oggetto; e se Dio fosse oggetto, anche di Se Stesso, non sarebbe Nonfinito. Questo punto pertiene la logica, non la fede, e neppure la teologia comuqnue intesa. “Dio”, insomma, è un sostantivo utilizzato nella sfera linguistica, poiché nelle nostre lingue occorre che un sostantivo regga un predicato, ma ciò non vuol, dire che l’ordine del mondo si pieghi a, o necessariamente rispecchi, quello linguistico. Altrimenti, chi afferma diversamente mi dovrebbe proprio spiegare qual è il soggetto, ad esempio, di “piove”. Siccome non me lo potrà mai spiegare, io seguiterò a usare il sostantivo Dio, avendo cura di chiarire quanto sopra. Per tale ragione, Dio non può essere affermato, né negato; sia perché si fanno affermazioni o negazioni su oggetti, sia perché la logica che nega o afferma è duale, ed il linguaggio con cui si articola la logica è formale; ma, se Dio esiste, la sua natura è non duale e non formale. Tutt'al più, dopo aver ben compreso che qualsiasi dimostrazione o confutazione dell’esistenza di Dio è per sua natura fallace (* nota), si può tentare di dire ciò che non è. Ed è ciò che fa Eriugena. Mi chiedi come fa a saperlo, Kal El? E tu come fai a sapere le cose che sai?

Se sorge ancora domanda, “ma allora, cos’è Dio?”, potrebbe voler dire o che io non sono capace di spiegarmi, oppure chi mi legge non è capace di capire. Per la verità, potrebbe voler dire entrambe le cose.

*Nota

Ammetto la parziale eccezione dell'argomemto di Godel; ma, se ricordi, ne abbiamo già discusso.

Modificato: da Satori
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Secondo voi se un uomo fosse lasciato solo fin dalla nascita (come Mowgli allevato da animali) su un isola senza altri esseri umani svilupperebbe coscienza di sè. La coscienza collettiva junghiana lo raggiungerebbe ugualmente? È il linguaggio il limite della conoscenza di sè?

Se la mente è in grado di vedere anche ciò che non è reale (immaginazione), significa che "in qualche modo" lo ha osservato e ne ha fatto esperienza?

Modificato: da bmare
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Antigone è oltre il tempo

:app:

Ne parlavo proprio ieri sera a mio figlio. Una storia imperdibile nella formazione di una Persona.

The Guru

La ribellione di Antigone.

In una società come quella dell'antica Grecia dove la politica (gli affari che concernono la città) sono esclusiva degli uomini, il ruolo di dissidente della giovane donna Antigone si carica di molteplici significati, ed è rimasto anche dopo millenni un esempio sorprendente di complessità e ricchezza drammaturgica. La ribellione di Antigone non riguarda infatti soltanto la sottomissione al nomos del re, ma anche il rispetto delle convenzioni sociali che vedevano la donna come sempre sottomessa e rispettosa della volontà dell'uomo (in tutta la Grecia ma ancor più ad Atene). Creonte trova intollerabile l'opposizione di Antigone non solo perché si contravviene a un suo ordine, ma anche perché a farlo è una donna.In questo senso, le azioni di Antigone potrebbero anche essere considerate un atto di hýbris, di tracotanza. Nel suo ribellarsi però la donna risulta essere una figura meno dirompente di altre eroine come Clitennestra o Medea, poiché la sua azione non è rivolta a scardinare le leggi su cui si fonda la polis, ma solo a tutelare i suoi affetti familiari.

I contrasti.

Oltre al già notato contrasto tra Antigone e Creonte, nell'opera vi sono ulteriori contrasti assai significativi, ad esempio quello tra Creonte ed Emone: Creonte infatti incarna la figura del anèr (il vero maschio, il vir dei Romani), mentre Emone rappresenta il ragazzo, innamorato della sua donna, che non teme di perdere la virilità mostrando i suoi sentimenti.

È inoltre riscontrabile un ulteriore contrasto tra Antigone e Ismene (sorella della protagonista): ciò è atto a evidenziare la figura eroica di Antigone, contrapponendola a quella tradizionale di Ismene, che, al contrario, rappresenta il modello femminile del suo tempo di donna debole, sottomessa all'uomo e obbediente al potere. Si può peraltro intendere Ismene anche come il contraltare debole di Antigone, ossia come colei che esprime i dubbi che sono in effetti anche di Antigone stessa, che però si risolve ad agire.

(Wikipedia)

Modificato: da bmare
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Atteso che l’attenzione cui ci riferiamo è contraddistinta da intenzionalità, vigile consapevolezza, costante presenza all’atto, vediamo subito che questa condizione della mente può essere utilizzata in due diverse modalità. Il modo migliore per spiegarmi, credo, è far riferimento a due pratiche spirituali che fondano su queste due modalità nella forma più pura; la prima proviene dal contesto indù, la seconda da quella buddista. Ekagrata (Yoga Sutra), la prima; Vipassana (buddismo Theravada), la seconda. Sintetizzando al massimo, nel primo caso, l’attenzione è utilizzata a mo’ di cuneo (per così dire); nel secondo, a mo’ rete. La prima prevede la direzione esclusiva dell’attenzione in un solo punto; la seconda, opera, al contrario, inclusivamente, a 360 gradi, su tutto lo spettro della percezione e della cognizione. Ora, la questione è che tra le due modalità non può esservi opposizione, e neppure si può parlare di “superiorità” di una modalità rispetto all’altra. Hanno la stessa finalità, che è quella di porre fine al perpetuo stato di sogno in cui si trova la mente ordinaria. La prima modalità esclude i fantasmi mentali, legando la consapevolezza a un “punto” (può essere proprio un punto fisico, o astratto, o un’immagine, o un suono, o un mantra); la seconda non esclude, anzi accetta la presenza di qualsiasi oggetto mentale, ma (basilare ma) non si legga ad esso, lascia che ogni cosa sorga e svanisca, senza respingere né legarsi, in uno stato di perfetta neutralità (facile a dirsi!!).

Da queste due modalità basilari, derivano, poi, una gran quantità di applicazioni secondarie.

Se questo è chiaro, proprio non capisco il senso della parole di Krishnamurti; anche perché, mi pare, non faceva riferimento ad un contesto di pratica rituale, ma alla “postura” mentale della vita ordinaria. In questo contesto, è lapalissiano che non puoi guidare una moto mentre sei in Ekagrata, e che il tipo di consapevolezza non può essere esclusivo.

E se Vipassana fosse lo stadio "evolutivo" successivo che include Ekagrata (e ti fa guidare "la moto" senza gli occhi)?

Modificato: da bmare
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Qualsiasi condizione mentale che escluda la percezione analitica, e la cognizione della collocazione nello spazio tempo, non permetterebbe a un organismo di sopravvivere a lungo. Lo stato di coscienza ordinario (quello dell’ego, e quindi separativo) non è un nemico da combattere, ma una realtà da integrare con la qualità della presenza e della consapevolezza. Guidare una semplice bicicletta, assorbiti in uno stato meditativo, sarebbe un atto suicida, concepibile solo da un meditante idiota. Est semper modus in rebus. La qualità della coscienza egoica cambia, pressoché automaticamente, a seguito della pratica spirituale, tanto che, alla fine, questa informa di sé ogni momento della giornata. “Pregate sempre, senza stancarvi mai” (Luca 18,1).

Pregare non significa chiedere a Dio di farci trovare il sistema vincente alla roulette, ma mantenere vigile la consapevolezza del Divino. Significa svuotare la testa dall’interminabile rappresentazione teatrale, dall’inarrestabile chiacchiericcio, e lasciare che ciò che è sia.

Fantasticare prodezze alla Matrix, o i superpoteri dei supereroi, è giustificabile negli adolescenti, ma fa di un adulto un ritardato. Non c’è alcuno “stadio evolutivo successivo”; tutto,quello che è è ora; basta solo stare zitti e ascoltare. Il Nirvana, il Paradiso, l’Alfa e l’Omega, le Verdi Prateria di Manitù, sono questo preciso momento. Solo questo. Cercare in un altro “ora” e in un altro “dove” è precisamente la matrice dell’illusione. Silenzio assoluto. Si può stare zitti anche mentre si parla, in una strada affollata, mentre si mangia, sempre. Ma se ci si osserva mentre si sta stando zitti, allora vuol dire solo che la rappresentazione ha trovato il modo di continuare, giocandoci.

Modificato: da Satori
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Pregare non significa chiedere a Dio di farci trovare il sistema vincente alla roulette, ma mantenere vigile la consapevolezza del Divino. Significa svuotare la testa dall’interminabile rappresentazione teatrale, dall’inarrestabile chiacchiericcio, e lasciare che ciò che è sia.

la perfezione sta' tutta riassunta in queste brevi e "semplici" frasi

grazie Sat

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si può tentare di dire ciò che non è. Ed è ciò che fa Eriugena.

Ora, non voglio portare questo thread fuori tema (magari se ne apre un altro), ma se qualcuno dice che "Dio è non conoscibile" e la si considera una verità, allora mi sembra un paradosso affermare qualsiasi cosa, sia positiva che negativa (anche perché dire cosa "non è Dio" è comunque una affermazione).

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