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L'uovo O La Gallina?


Satori

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Qualcuno ha mai veramente contemplato la propria morte? Il punto 0 dell'esperienza, il vuoto senza pensieri e senza immagini; il senza inizio e senza fine; eppure colmo della assoluta e infinita trasparenza della coscienza...

[...]

la vostra testa è infestata da uno sciame di incotrollabili ed inarrestabili parassiti: penseri che rimandano ad altri pensieri, immagini che si trasformano e si fondono con altre immagini; ricordi, volti, ecc... Ora, provate a zittire questa baraonda, e vi accorgerete che siete meno di un fuscello in una tempesta.

Probabilmente il cervello funziona (anche così): è una continua elaborazione di informazioni che vengono dall'esterno (sensi) e dall'interno (memoria).

Quando ci concentriamo per "zittire" questi processi, proviamo disorientamento, smarrimento (il "fuscello nella tempesta"); sono sensazioni che la mente evoca proprio (immagino) perché andiamo a rimuovere i punti di riferimento usuali: è come se ci togliessimo da soli la sedia su cui siamo seduti o come se cancellassimo le righe bianche dalla strada che stiamo percorrendo.

Questa nuova attività però è sempre effettuata dalla nostra mente cioè è sempre un'attività del cervello: probabilmente abbiamo sostituito il processo detto sopra con un altro più concentrato in in'unica attività di "silenziamento".

Alla fine è sempre la mente che lavora in modo diverso no?

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Alla fine è sempre la mente che lavora in modo diverso no?

Rallentare la mente permette tramite pratiche come il tantrismo di riattivare la "ghiandola pineale" (quasi del tutto atrofizzatasi durante l'evoluzione per il non uso, ma può essere rimessa in moto) e permette di aprire quello che gli indù chiamano "terzo occhio" ossia un'altro livello di percezione (ovviamente i dati sono poi tradotti dalla mente che però è molto più consapevole). Prima ancora occorre riattivare i chakra (vortici di energia) che riprendono a scorrere nella colonna vertebrale (kundalini). Riassumendo all'osso. La superbia è solo relativa al fine, lo strumento di per sè (ossia le pratiche) se spontanee e non forzate sono una benedizione del cielo. Sono tutte schematizzazioni ovviamente, con tutti i limiti che ciò comporta.

Modificato: da bmare
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Non sono riuscito a spiegarmi. La sensazione di smarrimento non deriva dal rimuovere le usuali coordinate di riferimento, giacché,al contrario, questa rimozione, che richiede il lavoro di tutta una vita, è l'orientamento perfetto e il ritrovamento definitivo. Cosa sarebbero, infatti, queste coordinate di riferimento, se non la solita baraonda di pensieri, ricordi, proiezioni, immagini, e dialoghi silenziosi, ossia un sogno da svegli? Che potere hai, Kal El, di zittire questo spettacolo? Quello che lascia sbalorditi (sempre che ci si applichi almeno un po') è il constatare che ciò che si chiama "io" è una fantasmogoria incontrollabile di elementi nei confronti dei quali la passività è assoluta. Restiamo terra terra: prova a fare silenzio in ciò chiami "la tua mente"; se è una cosa la dichiari "tua", mi pare, dovresti almeno padroneggiarne un livello minimo di funzionamento. Fa’ la semplice prova di zittire la “tua” mente per dieci secondi. Non ci riuscirai; la mente ordinaria (nel senso di non addestrata) necessita di almeno un anno di duro e costante lavoro per stare per dieci secondi in completo silenzio (ci si può illudere che così non sia; ma allora, o si bara con se stessi, oppure non ci accorge di quanto sia sottile e onnipervadente l’imperio del teatro mentale). Ma bastano questi dieci secondi di totale silenzio (se davvero tali) per dare, una volta per tutte, definitivamente, e con una certezza di una qualità che supera qualsiasi altra (infatti è di natura diversa dalla certezza razionale, che è mediata (da simboli), mentre questa è immediata). Quale certezza? Che l’ego è una illusoria creazione della memoria, la quale costruisce una apparente continuità ad un flusso inarrestabile. Più si cerca questo “io”, e più si incontrano pensieri che si perdono in altri pensieri. La stesa nozione di “io”, a parte un’entità grammaticale, non è altro che un pensiero tra altri pensieri. Non sembra così? Non posso farci niente; può affermare che non è così solo chi non si è preso la briga di prestare attenzione, o chi non ha indagato per niente. In questo caso, la discussione si farebbe davvero oziosa.

Tu forse vuoi dire che la mente è un epifenomeno dell’attività del cervello; l’altra alternativa fisicalista, la più radicale, è che non è neppure un epifenomeno, ma l’attività cerebrale stessa (ossia una rete di impulsi elettrici). Innanzitutto, ti assicuro che una cosa del genere non è mai stata dimostrata; e ti riassicuro che parlo con piena cognizione di causa. Che la mente sia quanto esposto due righe sopra e solo una ipotesi ed al tempo l’ultima speranza della filosofia fisicalista che fa capo ad una certa area della cosiddetta “filosofia analitica”; il cui esponente di punta è Daniel Dennett, la maggior parte delle cui opere sono tradotte in italiano. Dennett, di cui ho letto con grande attenzione la maggior parte dei saggi (salvo gli ultimi, perché seguita a girare in circolo) ha dedicato gli ultimi trenta anni a cercare di dimostrare un’ipotesi come la tua. Premetto che Daniel Dennett non è un professorino qualsiasi; ma persona di straordinaria intelligenza e preparazione; ma non può dimostrare l’impossibile. Il suo tentativo, operato con strumenti ingegnosissimi, parte dalla sola premessa possibile al fisicalista: che al crescere della complessità, un sistema sviluppi proprietà non presenti ai precedenti, ed inferiori livelli (se tali proprietà fossero presenti, ci si troverebbe in una specie di creazionismo, cosa che i fisicalisti aborrono peggio che Dracula l’aglio). Già dalla premessa, qualsiasi persona non ottenebrata da un preconcetto fideistico dovrebbe aver chiaro che la conclusione non può che essere un fallimento dell’ipotesi. Se neppure un germe di possibilità di luce di coscienza è presente a livelli bassi di complessità, per via di quale prodigio un ammontare di tenebre può generare un infinitesimale frammetto di luce? Come può una sommatoria di niente dare origine a qualcosa? Se il caso è radicale assenza di informazione, come possono innumerabili concatenazioni e mutazioni di niente produrre qualcosa? Si origina qualcosa, per sviluppo, se già è presente, anche se in nuce, qualcosa della medesima natura; ma una interminabile quantità di zeri, o di assenze, non potrà mai dare alcuna presenza. Eppure, la premessa e l’ipotesi fisicalista sono proprio queste. Chi non ci crede, legga ad esempio, “Coscienza - Che cosa è” di Daniel Dennett (Raffaello Cortina 2007), e poi venga a negare che sia un mirabolante esercizio di arrampicamento sigli specchi.

Modificato: da Satori
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La parte negativa di quello che appena descritto la può sperimentare senza difficoltà (solo con un minimo di applicazione) chiunque mi legge. Sedetivi semplicemente su una poltrona, o su una sedia, e state ad osservare ciò che accade nella vostra mente. Se non lo avete mai fatto, rimarrete sconcertati. Vedrete che la vostra testa è infestata da uno sciame di incotrollabili ed inarrestabili parassiti: penseri che rimandano ad altri pensieri, immagini che si trasformano e si fondono con altre immagini; ricordi, volti, ecc... Ora, provate a zittire questa baraonda, e vi accorgerete che siete meno di un fuscello in una tempesta.

Basta provare.

Vangelo: Matteo 18,1-5

1 In quel momento, i discepoli si avvicinarono a Gesù, dicendo: «Chi è dunque il più grande nel regno dei cieli?»

2 Ed egli, chiamato a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse:

3 «In verità vi dico: se non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.

4 Chi pertanto si farà piccolo come questo bambino, sarà lui il più grande nel regno dei cieli.

5 E chiunque riceve un bambino come questo nel nome mio, riceve me.

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=705

Modificato: da bmare
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3 «In verità vi dico: se non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.

4 Chi pertanto si farà piccolo come questo bambino, sarà lui il più grande nel regno dei cieli.

Sacrosante parole; le quali, senza un tuttavia (ahinoitutti oppositivo), non farebbero della vita lo straordinario koan che è. Farsi piccoli in Terra, per giganteggiare in Cielo, caccia ancora più profondamente nelle maglie del circolo vizioso da cui si vorrebbe uscire. Perdere oggi, per guadagnare domani, è una miserabile vendita allo scoperto, l’estremo tentativo dell’ego di trasporre il suo nulla nella sfera dell’Essere.

Il canto delle sirene è pressoché irresistibile. Ocio…

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l’estremo tentativo dell’ego di trasporre il suo nulla nella sfera dell’Essere.

Il canto delle sirene è pressoché irresistibile. Ocio…

non ho capito :wacko:

Chiediti che significa “chi vuole salvare la propria anima la perderà”.

1°, chi è che vuole salvare la propria anima?

2°, come che sia, come può il soggetto che vuole salvare la propria anima (e che dunque si presuppone corrotto, sennò perché mai sentirebbe questa necessità), essere lo stesso che ha un’anima da salvare? L’identica cosa tenta di fare il barone di Munchhausen, nell’illusione di poter uscire dalla palude di sabbie mobili, tirandosi su per i capelli.

Non per niente, ho parlato di circolo vizioso... :tap:

Modificato: da Satori
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In pratica la religione stessa rischia di diventare un ulteriore sistema di controllo dell'Ego, raffinatissimo e sottile? una chiacchiera ancor più suadente?

In pratica ed in teoria. L'insidia più infida del fariseismo consiste nel consegnare l'uomo alla religione, anziché concepire la religione come mezzo. Immortali le parole di Lucrezio: "Tantum religio potuit suadere malorum". C'è purtroppo molta verità nel detto "la religione è l'oppio dei popoli". Nè si può negare che i crimini più abberranti siano stati perpetrati in nome di Dio.

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Concludo.

Il tempo di un maori non occidentalizzato è uguale a quello di un newyorchese? Abbiamo visto che il tempo di un bambino di cinque anni non può essere lo stesso di un vecchio di novanta, perché, come ha correttamente rilevato onalim, e commentato Dstrange, l’intera vita di un bambino di cinque anni è la diciottesima parte dell’intera vita di un vecchio di novanta; e quindi la percezione della durata, per parte, sarà la diciottesima parte di quella del vecchio.

Approfondendo; che significa “Intera vita”? Quando uno pensa alla propria vita, che sta facendo, esattamente? Ricordi, evidentemente, ossia memoria. Ci si riferisce comunemente alla propria vita come a una collezione di ricordi; tanto che i vecchi non fanno che parlare del passato. E cosa è la memoria, se non un archivio dove sono conservate le tracce di esperienze e fatti finiti? A questo punto, arriva il positivista e dice:

“Fermi tutti; il massimo che posso concedere è che la percezione soggettiva del tempo sia diversa tra il maori, il newyorchese, il bambino e il vecchio; ma non c’è dubbio alcuno che lo spazio/tempo matematico sia identico per entrambi. Il fatto forse non semplice da capire immediatamente è che l’affermazione del positivista non ha alcuna pertinenza con l’argomento. Il tempo comunque percepito (dal maori, dal vecchio, dal bambino, o da un gatto) non è lo stesso tempo di cui parla il positivista; il primo è la percezione di una durata; il secondo è una teoria matematica; ossia un insieme di simboli che si presume siano (assumiamolo pure) legati da un rapporto di coerenza, e che si riferiscano al mondo reale. Il primo non è oggettivabile, il secondo è esclusivamente oggettivo. Collegandomi al volo con una discussione che ho in corso con Kal El su altro thread, questo vuol dire che – non essendo quantificabile, circoscrivibile, misurabile – il tempo nella prima accezione non esiste? E il fatto che evidentemente quel tempo esiste, anche se non ne potrà mai essere dimostrata l’esistenza (giacché si può dimostrare l’esistenza o inesistenza di enti definiti o definibili), fa di chi ne dichiara l’esistenza un fideista, un sognatore?

Ma torniamo a noi. Percezioni diverse dello spazio tempo creano vissuti esistenziali diversi; ossia mondi diversi. Il mondo di un adolescente innamorato non è lo stesso mondo di un cadavere come Mario Monti. Sto scrivendo in una stanza dove ho vissuto da adolescente; le proprietà fisiche (a parte il logoramento dovuto all’entropia) sono quelle di allora; ma non è stessa stanza; e io non sono quello di allora. (Faccio un secondo riferimento all’altro thread: io chi? Ogni singolo nano-nano-nano-secondo questo organismo cambia, la memoria perde pezzi e ne aggiunge altri. Io chi? Se non c’è nessun io adesso, quale inesistente io si dovrebbe reincarnare?).

Come che sia, il senso dell’io, dell’essere me, poggia interamente sulla memoria, che è una sequenza di immagini e pensieri disposta in modo lineare (se il meccanismo funziona bene), che rimanda a quelli che si potrebbero definire gli oggetti dell’esperienza, formando un flusso. Questo flusso è composto da una determinata sequenza di oggetti-pensiero, oggetti- immagini, astrazioni, ecc…, Per semplificare, mettiamo che tale sequenza sia composta da 100 elementi; bene, se io chiedessi a ciascuno di voi (preferibilmente a quelli che scherzano solo quando c’è da scherzare) qual è l’elemento del nostro linguaggio, anzi proprio della nostra lingua, (e precisamente quale è l'avverbio) che correla la posizione dell’elemento quinto della sequenza al ventesimo elemento, che avverbio usereste? Beh, è ovvio: la quinta posizione precede la ventesima, e quindi viene prima: l'avverbio è "prima". Ecco il tempo!! Una radicale illusione. Strano vero? Vediamola in questo modo, e verifichiamo passo passo: concentratevi un momento su ciò che accade quando ricordate. Abbiamo visto che la memoria è una specie di archivio, e chiaramente in archivio i dati stanno tutti presenti simultaneamente. L’elemento classificato come quinto, nell’archivio, è simultaneo al ventesimo, ed è solo la proiezione seriale sul mondo operata dal nostro pensiero a creare il vettore tempo. Crediamo che il tempo sia una proprietà intrinseca del reale, e che esistano cose che si posizionano le une appresso alle altre in modo lineare, mentre, in realtà quello che abbiamo fatto, è proiettare la nostra capacità di astrazione sul mondo reale. Ricapitoliamo: l’esperienza della successione fonda sulla memoria, infatti (lo abbiamo già visto) senza la nozione di un prima e di un dopo, sarebbe inconcepibile la stessa nozione di tempo; e cosa ci rende la memoria del passato? Ci rende il ricordo, sotto forma di immagini, emozioni, e talvolta “suoni silenziosi”. E il ricordo ci dà la sensazione della prima volta che abbiamo sfiorato la sua mano, o ne riproduce, come in un mondo di ombre, appena e solo la traccia illusoria? Ma, anche se ciascuno di chi legge fosse il campione mondiale dei ricordatori, quando sta ricordando? Ora!! Non si può che ricordare in un “ora” che sta fuori da qualsiasi durata. Eppure sembra che il tempo esista, lo so; e in un certo senso esiste; così come, sempre in un certo senso, esiste la traccia che ci riporta alla volta che abbiamo sfiorato la sua mano. Lo si chiami come si preferisce, ossimoro, o paradosso; il tempo è illusoriamente reale; mentre il presente è assolutamente reale.

Mi si potrebbe fare rilevare una contraddizione; prima ho scritto:

“E il fatto che evidentemente quel tempo esiste, anche se non ne potrà mai essere dimostrata l’esistenza (giacché si può dimostrare l’esistenza o inesistenza di enti definiti o definibili), fa di chi ne dichiara l’esistenza un fideista, un sognatore?”

Qui mi riferisco con tutta evidenza alla percezione ordinaria del tempo, all’interno del contesto della cosiddetta realtà condivisa. All’interno di questa realtà il tempo esiste (*nota). Anche se in modo talmente elusivo, che nessuno è mai stato capace di dire cos’è. E il motivo perché è stato sempre impossibile è quello che ho illustrato. Quello che ho mostrato, precisamente, è che un’illusione non cessa di essere tale per il solo fatto di essere collettiva e condivisa.

*nota

Le teorie matematico-fisiche dello spazio/tempo non si riferiscono allo nozione di tempo illusorio di cui ho parlato. Esse cercano di cogliere talune proprietà del mondo fisico, raffigurandole per mezzo di equazioni. Non sorprende certo che portino a insolubili paradossi.

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Quindi come potrebbe essere definito il soggetto che afferma : "io sono"? Nè mortale e nè immortale?

Non è nè definibile e nè indefinibile? Una specie dell'"ago della bilancia"?

Mortale e immortale sono attributi che cercano di circoscrivere qualità all'interno della sfera del definibile, quindi del finito. In risposta al tuo quesito, non credo di peccare di presunzione affermando che Nagarjuna ti risponderebbe così:

nè mortale nè immortale, e nè "nè immortale nè immortale"; nè definibile nè non definibile, e nè "nè definibile nè non definibile". Ovviamente, so perfettamente che traformati in stringhe di proposizioni formali questi enuciati risulterebbero probabilmente contraddittori, o, se non, inconsistenti; e lo sapeva anche Nagarjuna, che con la logica faceva pure la pastasciutta. Allora, a che servono? Servono, all'interno del sistema Mahayana, e precisamente della scuola Madhyamika, a portare la mente a uscire dalla sfera dialogica e separativa, e guardare il mondo senza proiettarvi nomi, attributi, proprietà, speranze, aspettative. E' la medesima cosa che hai riportato tu in quei brani evangelici, a proposito del ritornare bambini (che non vuol dire rim-bambire).

Comunque tra poco, al più tardi domani, posto un lungo e argomentatissimo scritto su temi analoghi, nella discussione sulla spiritualità.

Grazie a chiunque ha partecipato alla discussione. :ciao:

Qui chiudo

Modificato: da Satori
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